Testo in lingua originale, Marco Ciriello
Nella piazza c’è Italia, la statica idealità del paese. Spazio che fa da cuore allargato, accogliendo amori e imprecazioni, colpe e inganni, distacchi e rompicapi. È nella piazza che i sentimenti smettono di vagare indisturbati e trovano forma. La sua geometria condiziona le giornate, i suoi portici sono gli armadi per le invidie dei fantasmi. C’è la Storia nella piazza d’Italia, segni e passaggi, linee di sobrietà stilistica e azzardi che si intromettono nella vita di chi le abita. Sogni d’architetti, vescovi e podestà.
È nella piazza che si misura il tempo con i grandi orologi, o con la piccola vita quotidiana. Mercati e messe, assemblee e concerti, nella piazza si raccolgono le urla, si masticano le note e si incarnano i sogni della collettività. È nella piazza che si intersecano saggezza e azzardo, promesse e ricordi. Puoi trovarci un pazzo che se ne dice proprietario o nessuno, dei ragazzini che giocano a pallone con la benedizione di un prete o un sindaco che convinto spiega i fatti. O semplicemente, da qualche parte sotto la superficie, l’essenza del posto che l’ha partorita.
Come toccare il ventre di una donna che non conosci. Questo è lo stare in piazza. Ha a che fare con la carnalità, o almeno per molto tempo è stato così. E anche quando ormai la conosci e bene, perché è la TUA donna, provi sempre stupore: per un angolo dove non ti eri appoggiato, per una colonna dove non ti eri mai fermato, per uno scalino che ti fa inciampare o magari solo sedere ad aspettare che arrivino gli altri. La piazza non è mai altrove, no, la piazza è un luogo preciso con radici profonde. È in piazza che stavano gli ingravidabalconi di Vitaliano Brancati, quelli che sognavano le donne che passavano, o che si affacciavano, che giocavano tra sospiri e desideri: aspettando un sì giocando a carte davanti ai bar. Una piazza esiste se c’è almeno un bar.
Una piazza è asempre la stella dell’infanzia di qualcuno. Una piazza di solito sopravvive a quelli che l’hanno vissuta. A volte viene sopraffatta da sconosciuti, altre si stringe intorno ai conosciuti. Una piazza può essere alleata della gloria militare per via di certe guerre, un’altra può essere il progetto di fuga da quelle glorie o un’attraente parentela col marmo. E persino quando una piazza è orribile ci sarà sempre qualcuno che si riconoscerà. Una piazza è una bocca sempre aperta, a volte due bocche che combaciano. E se le manca il nome prima o poi lo scriverà uno di quelli che l’ha fatto notare. Una piazza è cappotto e comandamento biblico, spina dorsale, congiunzione e ricongiunzione. Una piazza è una aggiunta, un’altra possibilità. Una piazza è la vista del poeta. Una piazza è tentazione, un’altra guai perenni. Una piazza è coda. Una piazza è distesa di senso. Una piazza è vista mare. Una piazza a volte fa più primavera d’uno stormo di rondini. Una piazza è luce. Una piazza è vocabolario. Una piazza è un incrocio di biascicati complimenti, invasione linguistica, liti inattese. Una piazza è una corale. Una piazza è una voce che dal passato arriva all’oggi: che fa la piazza? Si muove la piazza? Che dice la piazza?
Come un vascello che viaggia da fermo, con zone di sordità e altre di calore, una piazza è una convergenza anagrafica, un romanzo e un congegno narrativo che accomuna i corpi e le sorti. Una piazza può essere pianeta e satellite. Una vetta dello spirito. Una galassia. Avvicendamento.
Una piazza è sempre un numero dispari.